QUEGLI ARDIMENTOSI E UN PO' CHIUSI "RAGAZZI DI VIA MILANO"

Nessuna donna, ne' registi, cantautori o artisti: nel gruppo del "Secolo d' Italia" solo giornalisti militanti

PIERLUIGI BATTISTA
Fanno quasi tenerezza, i "ragazzi di via Milano" raffigurati da Mauro Mazza nel libro che porta quel titolo e che vuole raccontare l'epopea degli ardimentosi giovanotti della destra italiana che a via Milano, nella redazione del Secolo d'Italia, mossero i primi passi sui sentieri del giornalismo e della politica, prima di diventare colonnelli e generali di Alleanza Nazionale. Tenerezza e nostalgia che trasudano dalle pagine del Mazza ormai fatto e maturo, giornalista di successo e orgoglioso delle sue origini missine, e che affiorano dall'ormai celeberrima fotografia, reperto storico che domina la copertina del libro, in cui i Fini e i Gasparri, gli Storace e gli Urso, i Malgieri e gli Alemanno si fanno immortalare in tenuta calcistica, in piedi e accucciati, come usa nei campetti dell' oratorio e sul terreno di San Siro. E come se, riga dopo riga, Mazza volesse rendere il lettore partecipe di uno stupore: ma come avra' fatto quella formazione sgangherata e acerba a scalare i vertici del potere, a diventare fucina di ministri e direttori, classe dirigente della Seconda Repubblica? Appunto: come avra' fatto? E' curioso come, in questi giorni di agosto, l'uscita del libro abbia dato l'occasione al Secolo d'Italia di aprire una bizzarra seduta di autocoscienza, in cui gli ex militanti della gioventu' missina ora diventati famosi si chinano sul loro passato, rievocano un'atmosfera ormai smarrita, riesumano dagli strati sepolti della memoria volti, nomi, circostanze. Prevale in questo amarcord collettivo la cifra emotiva dell'eroicizzazione, talvolta dell'autocelebrazione compiaciuta, il ricordo di indicibili sofferenze patite negli anni del ghetto neofascista, la denuncia ancora dolorosa di discriminazioni inflitte da un mondo grande e terribile che sembrava volesse chiudere dentro un cerchio asfissiante questi giovani generosi e idealisti. C'e' molto reducismo, in questa cascata di ricordi. E anche di vittimismo. Ma c'e' un fondo di autenticita', nel monumento alla memoria costruito da Mazza, che e' anche la rivelazione di un tratto antropologico molto eloquente, la ragione di un modo d'essere ancora attuale che solo in quegli anni dell'apprendistato trova la sua spiegazione. E' come se questi ragazzi, amici e "camerati" non avessero frequentato altri che se stessi, il loro gruppo, il loro clan. Niente contatti con l' esterno, nessuna familiarita' con mestieri intellettuali che non fossero il giornalismo come primaria forma di militanza. Non c'e' un regista, di cinema o di teatro, nel loro orizzonte esistenziale. Non un direttore d' orchestra, un artista, un genio della grafica o del design, un architetto, un cantautore mediamente famoso, un attore o un'attrice di nome, uno scrittore, uno sceneggiatore, un astrofisico. Nessuna donna (una sola eccezione, Flavia Perina) che portasse nel gruppo un lessico e una sensibilita' diversi. Nessuno scambio effettivo con ambienti e linguaggi in senso lato "moderni". Letture si'. Ma ossessivamente ripiegate nel santuario tradizionale della destra, venerazioni per Pound, Junger, Brasillach, brividi mitologici per Tolkien, fascinazioni per Evola. Come se il codice dell'emarginazione fosse entrato a tal punto nel patrimonio mentale di quei giovani che scelsero di andare controcorrente rispetto allo spirito dei tempi da negarsi ogni contaminazione fuori del ghetto. Un ritratto di giovani generosi, quello di Mazza. Ma a leggerne il resoconto si respira il clima di uno spirito vagamente autistico, impermeabile agli influssi del mondo, rannicchiato nella propria alterita'. Sicuri che residui non smaltiti di quello spirito non abbiano prodotto esiti non sempre entusiasmanti, negli anni dello sdoganamento?