Fanno quasi tenerezza, i "ragazzi di via Milano"
raffigurati da Mauro Mazza nel libro che porta quel titolo e che vuole raccontare
l'epopea degli ardimentosi giovanotti della destra italiana che a via Milano,
nella redazione del Secolo d'Italia, mossero i primi passi sui sentieri
del giornalismo e della politica, prima di diventare colonnelli e generali
di Alleanza Nazionale. Tenerezza e nostalgia che trasudano dalle pagine
del Mazza ormai fatto e maturo, giornalista di successo e orgoglioso delle
sue origini missine, e che affiorano dall'ormai celeberrima fotografia,
reperto storico che domina la copertina del libro, in cui i Fini e i Gasparri,
gli Storace e gli Urso, i Malgieri e gli Alemanno si fanno immortalare in
tenuta calcistica, in piedi e accucciati, come usa nei campetti dell' oratorio
e sul terreno di San Siro. E come se, riga dopo riga, Mazza volesse rendere
il lettore partecipe di uno stupore: ma come avra' fatto quella formazione
sgangherata e acerba a scalare i vertici del potere, a diventare fucina
di ministri e direttori, classe dirigente della Seconda Repubblica? Appunto:
come avra' fatto? E' curioso come, in questi giorni di agosto, l'uscita
del libro abbia dato l'occasione al Secolo d'Italia di aprire una bizzarra
seduta di autocoscienza, in cui gli ex militanti della gioventu' missina
ora diventati famosi si chinano sul loro passato, rievocano un'atmosfera
ormai smarrita, riesumano dagli strati sepolti della memoria volti, nomi,
circostanze. Prevale in questo amarcord collettivo la cifra emotiva dell'eroicizzazione,
talvolta dell'autocelebrazione compiaciuta, il ricordo di indicibili sofferenze
patite negli anni del ghetto neofascista, la denuncia ancora dolorosa di
discriminazioni inflitte da un mondo grande e terribile che sembrava volesse
chiudere dentro un cerchio asfissiante questi giovani generosi e idealisti.
C'e' molto reducismo, in questa cascata di ricordi. E anche di vittimismo.
Ma c'e' un fondo di autenticita', nel monumento alla memoria costruito da
Mazza, che e' anche la rivelazione di un tratto antropologico molto eloquente,
la ragione di un modo d'essere ancora attuale che solo in quegli anni dell'apprendistato
trova la sua spiegazione. E' come se questi ragazzi, amici e "camerati"
non avessero frequentato altri che se stessi, il loro gruppo, il loro clan.
Niente contatti con l' esterno, nessuna familiarita' con mestieri intellettuali
che non fossero il giornalismo come primaria forma di militanza. Non c'e'
un regista, di cinema o di teatro, nel loro orizzonte esistenziale. Non
un direttore d' orchestra, un artista, un genio della grafica o del design,
un architetto, un cantautore mediamente famoso, un attore o un'attrice di
nome, uno scrittore, uno sceneggiatore, un astrofisico. Nessuna donna (una
sola eccezione, Flavia Perina) che portasse nel gruppo un lessico e una
sensibilita' diversi. Nessuno scambio effettivo con ambienti e linguaggi
in senso lato "moderni". Letture si'. Ma ossessivamente ripiegate
nel santuario tradizionale della destra, venerazioni per Pound, Junger,
Brasillach, brividi mitologici per Tolkien, fascinazioni per Evola. Come
se il codice dell'emarginazione fosse entrato a tal punto nel patrimonio
mentale di quei giovani che scelsero di andare controcorrente rispetto allo
spirito dei tempi da negarsi ogni contaminazione fuori del ghetto. Un ritratto
di giovani generosi, quello di Mazza. Ma a leggerne il resoconto si respira
il clima di uno spirito vagamente autistico, impermeabile agli influssi
del mondo, rannicchiato nella propria alterita'. Sicuri che residui non
smaltiti di quello spirito non abbiano prodotto esiti non sempre entusiasmanti,
negli anni dello sdoganamento? |