Quando i ricordi ti assalgono come una meteora impazzita ti chiedi se
per caso non sia già cominciata lultima stagione della vita.
Cerchi ardentemente di dare un ordine a schegge di pensieri che schizzano
nella mente. Cavaliere affranto, insegui tenui ombre che invano vorresti
trattenere. Assapori la memoria. Laccarezzi, la culli, la coccoli.
E non vorresti mai liberartene. Essa irrompe non prevista nella tua convulsa
quotidianità. La squarcia, questa assillante quotidianità,
e le mette un freno. Uno stop improvviso. Pronta a dirti, magica dea con
la quale avverti il gusto di dialogare, che il tempo, grande scultore,
ha lasciato segni indelebili. Sono i segni che hanno marcato la tua esistenza
e la marcheranno ancora, finché Dio vorrà.
Sì, lo ammetto: il libro di Mauro Mazza dedicato a I ragazzi di
via Milano mi ha fatto uno strano effetto. Lho letto tutto dun
fiato. Come si legge un romanzo che ti prende fin dalle prime pagine.
Scorrevole e pure denso di fatti, di avvenimenti, di storie. Storie di
amicizia. Intrecci di passione politica e di furore giornalistico. Noi,
quelli del Secolo, trattati da appestati, perennemente esclusi dal circolo
buono del giornalismo italiano. Minacciati fisicamente, tacciati
di neofascismo e come tali degni di essere, in qualunque momento,
accoppati sullonda di unabominevole campagna di odio alimentata
dalla sinistra estrema. Erano gli anni cosiddetti di piombo. Gli anni
dei martiri di destra. Una catena di delitti senza senso. Giovani vite
spezzate. Sogni dimprobabili palingenesi rivoluzionarie naufragati
nel nulla. Generazioni luna contro laltra armate. Un odio
viscerale, profondo, alimentato da "cattivi maestri", fomentato
nei licei, nelle universita', nelle fabbriche. Autentica guerra civile,
in tempo di pace e non di pacificazione. Venticinque anni dopo la guerra
civile italiana, l'orologio della storia sembrava aver spostato le lancette
inesorabilmente indietro.
Ancora oggi non trovo altra spiegazione a quella folle stagione se non
nell'apparente fragilita' di un sistema di potere incardinato nei ruoli
"distinti e distanti", per dirla con Cossiga, eppure reciprocamente
funzionali della Dc e del Pci. Alla guerra fredda internazionale corrispondeva
una guerra fredda tutta italiana, che si nutriva di opposti estremismi
e, esercitandosi nel consociativismo fino ad accarezzare l'idea del "compromesso
storico", con Moro e Berlinguer, in fondo non faceva altro che preservare
se stessa.
Ecco, il racconto di Mazza si dipana in questo scenario. E la storia di
una piccola comunita' di giornalisti in prima linea diventa, senza che
nessuno fra di loro potesse minimamente immaginarlo, storia stessa della
destra italiana al governo a venti anni o poco piu' di distanza.
Scorrono forti le immagini dei fondatori di quell'incredibile e irripetibile
Movimento sociale italiano. Almirante, Romualdi, Tripodi. Uomini tutti
d'un pezzo. Politici forgiati dalla esperienza di Salo', combattenti nati,
gente di cultura mai prona verso quel misto d'ideologia marxista-leninista
e di cattocomunismo dispensato a piene mani in talune sagrestie e fin
troppo incombente tra gli opinionisti.
Quelli che abbiamo alle spalle sono stati anni difficili della nostra
storia. Eppure, nella gioiosa incoscienza con cui ogni giorno, fino a
sera tarda, ci attardavamo in redazione per garantire che "la voce"
del partito arrivasse ai tanti militanti missini sparsi per l'Italia,
era racchiuso il senso profondo di una scelta di vita, prima ancora che
di una professione affascinante come quella del giornalismo. Piu' una
missione che un lavoro con il quale a malapena si sbarcava il lunario.
La soddisfazione di essere utili alla causa. L'orgoglio di entrare a far
parte di una "famiglia" che altri, meno fortunati di noi, osservavano
da lontano, condividendone idee, comportamenti e pulsioni.
Mentre fuori il mondo cominciava a cambiare e la Perestrojka di Gorbaciov
lanciava i primi segnali della futura, inarrestabile implosione del grande
impero sovietico, al "Secolo", in quel piccolo mondo antico,
i "ragazzi", senza lacerare il patrimonio ideale e spirituale
dei padri, si lanciavano in ardite riflessioni cultural-filosofico-sociologiche
senza il timore dell'eresia. Formidabile palestra, il quotidiano di via
Milano. Li' ci si divideva e accapigliava intorno a interminabili dispute
tra gentiliani, evoliani, corridoniani. Nazionalisti e cultori del mito
del Santo Graal. Imperialisti e comunitari. Figli del sole e integralisti
cattolici. Corporativisti e tenaci assertori della socializzazione. Seguaci
della Nouvelle Droite di Alain de Benoist e conservatori, studiosi di
Burke, Calamandrei, Maranini; appassionati lettori di Brasillach, Celine,
Pound; di Mircea Eliade, Vintila Horia e Augusto Del Noce; di Guenon e
Papini. In questo crogiuolo d'idee e passioni si e' forgiata la classe
dirigente di Alleanza nazionale. Idee e passioni si condensavano, a quel
tempo, in opposte mozioni congressuali. E le correnti, allora, erano nient'altro
che luoghi del pensiero, fonte di progettualita', di speculazione culturale
e politica alla ricerca di una destra possibile e definita, moderna e
identitaria, nazionale e impregnata di senso dello Stato. Si dibatteva.
Il confronto, spesso aspro, era linfa vivificante. Niente a che vedere
con l'afasia in cui si rischia di affogare in epoca di antipolitica. Studiavamo
il "Capitale" di Marx per meglio contrastare il pensiero marxista
e leggevamo Gramsci cui invidiavamo l'acuta riflessione sulla rilevanza
della egemonia nel campo culturale.
Il "Secolo" era questo ed altro ancora. Quando arrivo' quel
grande direttore che fu Alberto Giovannini, ci sentimmo tutti marinettiani
e inguaribilmente futuristi. Iconoclasti in un giornale di partito. Anticonformisti
nel luogo che, un po' per definizione e molto per pregiudizio, non poteva
che essere il regno del conformismo. Di partito, ovviamente. Fatto sta
che, in quei formidabili anni al giornale, non ho mai sentito sul collo
il fiato dell'editore. Nessuna benche' minima censura. Liberi di scrivere
liberamente. Molto piu', oso credere, che al "Corriere" di Ottone
e Di Bella e certamente piu' che a "l'Unita'" o a l'"Avanti!".
Vigeva un patto non scritto fra Giovannini, direttore, e Almirante, editore.
Un patto di reciproca fiducia e di assoluta liberta' di pensiero, anche
se quella liberta', esercitata con puntiglioso rigore anche verso le posizioni
assunte dal partito, a volte faceva male e destava piu' di qualche mugugno
tra parlamentari e dirigenti. E anche a quello stile, a quel modo di agire,
a quella fierezza del "marciare controvento", che si deve la
costruzione di un profondo senso etico che niente e nessuno potra mai
scalfire.
Scrivera' qualche anno piu tardi Gennaro Malgieri, anche lui un "ragazzo"
di via Milano, con il quale divisi per un certo tempo il lavoro di allestimento
della Pagina delle Idee: "Al debutto del nuovo secolo ci siamo svegliati
avvolti da un'atmosfera nuova, quasi irreale. Con sorpresa abbiamo preso
coscienza che l'antica maniera di fare politica, nel cui ambito eravamo
stati allevati, era tramontata. Guardando la televisione, leggendo i giornali,
conversando con amici e conoscenti, ci siamo resi conto che la "nuova
politica" era l'antipolitica. Cioe' a dire la negazione della politica
come scienza, arte, disciplina, conflitto d'idee in favore di un pragmatismo
un po' abborracciato, volgarotto, sguaiato, spacciato come superamento
della politica stessa".
Ora pero' che l'antipolitica sembra stia finalmente consumando la sua
stagione, mi sovviene che la vita non sopporta il vuoto. La memoria non
ha bisogno di buchi neri. Al contrario il passato va scolpito nel marmo,
ma va anche oltrepassato. Portiamo gratitudine a Mazza per averlo ricordato
a noi tutti offrendoci lo spartito di pensieri ricevuto in eredita' da
quegli straordinari, dolorosi, entusiasmanti anni Settanta in via Milano.
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