QUELLA FOTO DEI “RAGAZZI DI VIA MILANO” E' UN ANTIDOTO ALLA DERIVA ANTIPOLITICA

SILVANO MOFFA

Quando i ricordi ti assalgono come una meteora impazzita ti chiedi se per caso non sia già cominciata l’ultima stagione della vita. Cerchi ardentemente di dare un ordine a schegge di pensieri che schizzano nella mente. Cavaliere affranto, insegui tenui ombre che invano vorresti trattenere. Assapori la memoria. L’accarezzi, la culli, la coccoli. E non vorresti mai liberartene. Essa irrompe non prevista nella tua convulsa quotidianità. La squarcia, questa assillante quotidianità, e le mette un freno. Uno stop improvviso. Pronta a dirti, magica dea con la quale avverti il gusto di dialogare, che il tempo, grande scultore, ha lasciato segni indelebili. Sono i segni che hanno marcato la tua esistenza e la marcheranno ancora, finché Dio vorrà.
Sì, lo ammetto: il libro di Mauro Mazza dedicato a I ragazzi di via Milano mi ha fatto uno strano effetto. L’ho letto tutto d’un fiato. Come si legge un romanzo che ti prende fin dalle prime pagine. Scorrevole e pure denso di fatti, di avvenimenti, di storie. Storie di amicizia. Intrecci di passione politica e di furore giornalistico. Noi, quelli del Secolo, trattati da appestati, perennemente esclusi dal circolo “buono” del giornalismo italiano. Minacciati fisicamente, tacciati di “neofascismo” e come tali degni di essere, in qualunque momento, accoppati sull’onda di un’abominevole campagna di odio alimentata dalla sinistra estrema. Erano gli anni cosiddetti di piombo. Gli anni dei martiri di destra. Una catena di delitti senza senso. Giovani vite spezzate. Sogni d’improbabili palingenesi rivoluzionarie naufragati nel nulla. Generazioni l’una contro l’altra armate. Un odio viscerale, profondo, alimentato da "cattivi maestri", fomentato nei licei, nelle universita', nelle fabbriche. Autentica guerra civile, in tempo di pace e non di pacificazione. Venticinque anni dopo la guerra civile italiana, l'orologio della storia sembrava aver spostato le lancette inesorabilmente indietro.
Ancora oggi non trovo altra spiegazione a quella folle stagione se non nell'apparente fragilita' di un sistema di potere incardinato nei ruoli "distinti e distanti", per dirla con Cossiga, eppure reciprocamente funzionali della Dc e del Pci. Alla guerra fredda internazionale corrispondeva una guerra fredda tutta italiana, che si nutriva di opposti estremismi e, esercitandosi nel consociativismo fino ad accarezzare l'idea del "compromesso storico", con Moro e Berlinguer, in fondo non faceva altro che preservare se stessa.
Ecco, il racconto di Mazza si dipana in questo scenario. E la storia di una piccola comunita' di giornalisti in prima linea diventa, senza che nessuno fra di loro potesse minimamente immaginarlo, storia stessa della destra italiana al governo a venti anni o poco piu' di distanza.
Scorrono forti le immagini dei fondatori di quell'incredibile e irripetibile Movimento sociale italiano. Almirante, Romualdi, Tripodi. Uomini tutti d'un pezzo. Politici forgiati dalla esperienza di Salo', combattenti nati, gente di cultura mai prona verso quel misto d'ideologia marxista-leninista e di cattocomunismo dispensato a piene mani in talune sagrestie e fin troppo incombente tra gli opinionisti.
Quelli che abbiamo alle spalle sono stati anni difficili della nostra storia. Eppure, nella gioiosa incoscienza con cui ogni giorno, fino a sera tarda, ci attardavamo in redazione per garantire che "la voce" del partito arrivasse ai tanti militanti missini sparsi per l'Italia, era racchiuso il senso profondo di una scelta di vita, prima ancora che di una professione affascinante come quella del giornalismo. Piu' una missione che un lavoro con il quale a malapena si sbarcava il lunario. La soddisfazione di essere utili alla causa. L'orgoglio di entrare a far parte di una "famiglia" che altri, meno fortunati di noi, osservavano da lontano, condividendone idee, comportamenti e pulsioni.
Mentre fuori il mondo cominciava a cambiare e la Perestrojka di Gorbaciov lanciava i primi segnali della futura, inarrestabile implosione del grande impero sovietico, al "Secolo", in quel piccolo mondo antico, i "ragazzi", senza lacerare il patrimonio ideale e spirituale dei padri, si lanciavano in ardite riflessioni cultural-filosofico-sociologiche senza il timore dell'eresia. Formidabile palestra, il quotidiano di via Milano. Li' ci si divideva e accapigliava intorno a interminabili dispute tra gentiliani, evoliani, corridoniani. Nazionalisti e cultori del mito del Santo Graal. Imperialisti e comunitari. Figli del sole e integralisti cattolici. Corporativisti e tenaci assertori della socializzazione. Seguaci della Nouvelle Droite di Alain de Benoist e conservatori, studiosi di Burke, Calamandrei, Maranini; appassionati lettori di Brasillach, Celine, Pound; di Mircea Eliade, Vintila Horia e Augusto Del Noce; di Guenon e Papini. In questo crogiuolo d'idee e passioni si e' forgiata la classe dirigente di Alleanza nazionale. Idee e passioni si condensavano, a quel tempo, in opposte mozioni congressuali. E le correnti, allora, erano nient'altro che luoghi del pensiero, fonte di progettualita', di speculazione culturale e politica alla ricerca di una destra possibile e definita, moderna e identitaria, nazionale e impregnata di senso dello Stato. Si dibatteva. Il confronto, spesso aspro, era linfa vivificante. Niente a che vedere con l'afasia in cui si rischia di affogare in epoca di antipolitica. Studiavamo il "Capitale" di Marx per meglio contrastare il pensiero marxista e leggevamo Gramsci cui invidiavamo l'acuta riflessione sulla rilevanza della egemonia nel campo culturale.
Il "Secolo" era questo ed altro ancora. Quando arrivo' quel grande direttore che fu Alberto Giovannini, ci sentimmo tutti marinettiani e inguaribilmente futuristi. Iconoclasti in un giornale di partito. Anticonformisti nel luogo che, un po' per definizione e molto per pregiudizio, non poteva che essere il regno del conformismo. Di partito, ovviamente. Fatto sta che, in quei formidabili anni al giornale, non ho mai sentito sul collo il fiato dell'editore. Nessuna benche' minima censura. Liberi di scrivere liberamente. Molto piu', oso credere, che al "Corriere" di Ottone e Di Bella e certamente piu' che a "l'Unita'" o a l'"Avanti!". Vigeva un patto non scritto fra Giovannini, direttore, e Almirante, editore. Un patto di reciproca fiducia e di assoluta liberta' di pensiero, anche se quella liberta', esercitata con puntiglioso rigore anche verso le posizioni assunte dal partito, a volte faceva male e destava piu' di qualche mugugno tra parlamentari e dirigenti. E anche a quello stile, a quel modo di agire, a quella fierezza del "marciare controvento", che si deve la costruzione di un profondo senso etico che niente e nessuno potra mai scalfire.
Scrivera' qualche anno piu tardi Gennaro Malgieri, anche lui un "ragazzo" di via Milano, con il quale divisi per un certo tempo il lavoro di allestimento della Pagina delle Idee: "Al debutto del nuovo secolo ci siamo svegliati avvolti da un'atmosfera nuova, quasi irreale. Con sorpresa abbiamo preso coscienza che l'antica maniera di fare politica, nel cui ambito eravamo stati allevati, era tramontata. Guardando la televisione, leggendo i giornali, conversando con amici e conoscenti, ci siamo resi conto che la "nuova politica" era l'antipolitica. Cioe' a dire la negazione della politica come scienza, arte, disciplina, conflitto d'idee in favore di un pragmatismo un po' abborracciato, volgarotto, sguaiato, spacciato come superamento della politica stessa".
Ora pero' che l'antipolitica sembra stia finalmente consumando la sua stagione, mi sovviene che la vita non sopporta il vuoto. La memoria non ha bisogno di buchi neri. Al contrario il passato va scolpito nel marmo, ma va anche oltrepassato. Portiamo gratitudine a Mazza per averlo ricordato a noi tutti offrendoci lo spartito di pensieri ricevuto in eredita' da quegli straordinari, dolorosi, entusiasmanti anni Settanta in via Milano.