NOI, NON NATI IN UN CUPO TRAMONTO

GIANNI SCIPIONE ROSSI

Quando Mauro Mazza me ne parlò, sulle prime rimasi perplesso. Che senso avrebbe avuto mettere insieme aneddoti, ricordi, piccolissime storie private di una stagione purtroppo archiviata da tempo? Sono onesto: lo incoraggiai con rassegnazione. Poi ho cambiato parere. I ragazzi di via Milano sarebbe almeno servito a storicizzare un pezzo importante della nostra vita, e avrebbe inquadrato in una prospettiva, dato un senso, a quella foto che come un incubo ricorrente ogni tanto riappare – magari rovesciata, con le didascalie sbagliate – su qualche giornale, a corredo dell’ennesimo, inutile pezzo tra politica e gossip. E migra su Internet, quella foto, è persino citata in qualche tesi di laurea. Mauro avrebbe restituito profondità a un’immagine, e in fondo avrebbe sottratto me – e ciascuno di noi – all’imbarazzo di dover raccontare, spiegare… L’imbarazzo e la noia, insomma, di dover – prima del tempo – fare la parte del vecchio giornalista che rievoca quando, quella volta, nel basso Congo…
Certo, sfogliare il libro, rivederti com’eri un quarto e più di secolo fa, ricordare colleghi e amici che non ci sono più, rischia di trascinarti nel più melenso degli amarcord. E tutto ti appare piu' bello di come sia stato nella realta', per la semplice e incontrovertibile ragione che eravamo tutti giovani di belle speranze… "I ragazzi di via Milano" e' anche questo. Alla fine ti monta anche un po' d'invidia perche' lui ci ha pensato e tu no. Tuttavia e' anche qualcosa di piu'. Di piu' di un breviario per ex colleghi racchiusi in stanze di cartone. Non so se l'autore se ne renda conto fino in fondo, ma il libro ha un valore che supera la dimensione privata e intimistica.
Tra un aneddoto e una battuta, tra un tocco di perfidia ben mascherato e una citazione dotta, Mazza punta la telecamera su un mondo che era molto diverso da come lo si rappresentava e anche da come ancora oggi spesso lo si rappresenta. Facendolo, rende un servizio alla storia politica e sociale di questo nostro Paese.
In molti si sono chiesti, in questi anni, come sia stato possibile per la destra italiana trasformarsi repentinamente da Msi ad An. Anche i piu' attenti tra gli osservatori e tra gli storici professionisti non hanno saputo dare una risposta. Di conseguenza, la svolta di Fiuggi - si dovrebbe piu' correttamente dire la svolta del 1993-95 - e' spesso ancora giudicata tattica e non strategica, superficiale e non profonda. Una sorta di sapiente "maquillage" dovuto alla pressione delle circostanze esterne. Alleanza nazionale, in sostanza, figlia di Tangentopoli piu' che di un autonomo processo politico e culturale.
Chi avesse la pazienza di leggere "I ragazzi di via Milano" troverebbe la risposta giusta. Vale per osservatori e studiosi, ma vale anche per quei settori della destra politica che talvolta - paradossalmente - sembrano non aver ben compreso la propria storia.
E' chiaro che solo il caso - per un decennio, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta - ha riunito nella stessa redazione buona parte della classe dirigente di un partito che per cinque anni (piu' i sette mesi del '94) avrebbe governato l'Italia. "Ognuno ha tanta storia", cantava Gabriella Ferri. I miei anni a via Milano (1980-1988) forse non ci sarebbero stati se Mino Pecorelli, il mio direttore a "Op", non fosse stato ammazzato in via Tacito in quel dannato marzo del '79. Ma "Sliding doors" e' solo un film. Non c'e controprova.
Resta il fatto che, al "Secolo d'Italia", abbiamo potuto partecipare alla formazione di una classe dirigente. E abbiamo goduto di un osservatorio privilegiato per capire come fosse cambiata e stesse ancora cambiando la destra italiana. Certo era un osservatorio accerchiato, come accerchiata era la destra. Accerchiata dagli esiti dell'antifascismo militante, dal piombo di quegli anni, dal clima della solidarieta' nazionale che solo dopo, con Bettino Craxi, si sarebbe spezzato. Eppure era un accerchiamento che non corrispondeva, se non in misura marginalissima, al sentimento, alle speranze, ai progetti, alla cultura di quel mondo.
Non era la sindrome da testimone impotente a guidare i dirigenti della destra, da Almirante a Romualdi, da Tripodi a Servello, per non dire dell'indipendente direttore Alberto Giovannini. Non era questo il sentimento che guidava i giovani che classe dirigente - dell'Italia - sarebbero diventati. "Siamo nati in un cupo tramonto…" restava solo il primo verso di un inno ignoto ai piu', che sembrava essere stato scritto un paio di secoli prima.
Colpita dal terrorismo, dall'inattuale scissione di Democrazia nazionale, dalla residua retorica antifascista, la destra avrebbe avuto qualche ragione per chiudersi in se stessa, per ritagliarsi un ruolo puramente testimoniale. Invece aveva l'ansia - per dirla con un intellettuale troppo presto dimenticato, Luciano Lucci Chiarissi - di partecipare politicamente e culturalmente alla vita nazionale.
Una destra che aveva interiorizzato la contrastata lezione di Michelini e, con Almirante, l'aveva portata a compimento in condizioni ambientali oggettivamente difficili. Prima il Fronte articolato anticomunista, poi la Destra nazionale, e ancora la Costituente di destra. Le contrapposizioni della guerra civile erano state archiviate. De Lorenzo e Giacchero avevano combattuto dall'altra parte. Gualtiero Jacopetti - il regista di "Mondo cane" e "Africa addio" - era stato ufficiale di collegamento con gli Alleati. In questo senso si puo' dire che negli anni Settanta erano state poste basi concrete per il Partito degli italiani, basi che nel decennio successivo si sono consolidate anche grazie a via Milano, ai suoi ragazzi e a tutto quel discorrere di politica e di cultura che passava da li'.
Almeno questa e' la sensazione di un testimone, rafforzata dalla memoria di Mauro Mazza. Che mi conferma nella convinzione di aver partecipato a una bella stagione, non solo professionale. Sotto questo profilo, tra l'altro, vissuta all'insegna di una grande liberta'. Un aneddoto in piu', tra i tanti possibili. Ottobre 1987, Bolzano. Almirante, per la seconda volta, fa chiaramente intendere che sara' Gianfranco Fini il suo successore alla segreteria. I "colonnelli" di allora sono in fibrillazione. E' domenica, il "Secolo" non esce il lunedi'. Almirante e' direttore ed editore. Mi avvicino e gli dico: "Segretario, io scrivo il pezzo. Magari domattina glielo mando…" Annuisce, saluto. Mi richiama: "Scusa, Rossi: lascia perdere. Mi fido".