Quando Mauro Mazza me ne parlò, sulle prime rimasi perplesso.
Che senso avrebbe avuto mettere insieme aneddoti, ricordi, piccolissime
storie private di una stagione purtroppo archiviata da tempo? Sono onesto:
lo incoraggiai con rassegnazione. Poi ho cambiato parere. I ragazzi di
via Milano sarebbe almeno servito a storicizzare un pezzo importante della
nostra vita, e avrebbe inquadrato in una prospettiva, dato un senso, a
quella foto che come un incubo ricorrente ogni tanto riappare magari
rovesciata, con le didascalie sbagliate su qualche giornale, a
corredo dellennesimo, inutile pezzo tra politica e gossip. E migra
su Internet, quella foto, è persino citata in qualche tesi di laurea.
Mauro avrebbe restituito profondità a unimmagine, e in fondo
avrebbe sottratto me e ciascuno di noi allimbarazzo
di dover raccontare, spiegare
Limbarazzo e la noia, insomma,
di dover prima del tempo fare la parte del vecchio giornalista
che rievoca quando, quella volta, nel basso Congo
Certo, sfogliare il libro, rivederti comeri un quarto e più
di secolo fa, ricordare colleghi e amici che non ci sono più, rischia
di trascinarti nel più melenso degli amarcord. E tutto ti appare
piu' bello di come sia stato nella realta', per la semplice e incontrovertibile
ragione che eravamo tutti giovani di belle speranze
"I ragazzi
di via Milano" e' anche questo. Alla fine ti monta anche un po' d'invidia
perche' lui ci ha pensato e tu no. Tuttavia e' anche qualcosa di piu'.
Di piu' di un breviario per ex colleghi racchiusi in stanze di cartone.
Non so se l'autore se ne renda conto fino in fondo, ma il libro ha un
valore che supera la dimensione privata e intimistica.
Tra un aneddoto e una battuta, tra un tocco di perfidia ben mascherato
e una citazione dotta, Mazza punta la telecamera su un mondo che era molto
diverso da come lo si rappresentava e anche da come ancora oggi spesso
lo si rappresenta. Facendolo, rende un servizio alla storia politica e
sociale di questo nostro Paese.
In molti si sono chiesti, in questi anni, come sia stato possibile per
la destra italiana trasformarsi repentinamente da Msi ad An. Anche i piu'
attenti tra gli osservatori e tra gli storici professionisti non hanno
saputo dare una risposta. Di conseguenza, la svolta di Fiuggi - si dovrebbe
piu' correttamente dire la svolta del 1993-95 - e' spesso ancora giudicata
tattica e non strategica, superficiale e non profonda. Una sorta di sapiente
"maquillage" dovuto alla pressione delle circostanze esterne.
Alleanza nazionale, in sostanza, figlia di Tangentopoli piu' che di un
autonomo processo politico e culturale.
Chi avesse la pazienza di leggere "I ragazzi di via Milano"
troverebbe la risposta giusta. Vale per osservatori e studiosi, ma vale
anche per quei settori della destra politica che talvolta - paradossalmente
- sembrano non aver ben compreso la propria storia.
E' chiaro che solo il caso - per un decennio, tra gli anni Settanta e
gli anni Ottanta - ha riunito nella stessa redazione buona parte della
classe dirigente di un partito che per cinque anni (piu' i sette mesi
del '94) avrebbe governato l'Italia. "Ognuno ha tanta storia",
cantava Gabriella Ferri. I miei anni a via Milano (1980-1988) forse non
ci sarebbero stati se Mino Pecorelli, il mio direttore a "Op",
non fosse stato ammazzato in via Tacito in quel dannato marzo del '79.
Ma "Sliding doors" e' solo un film. Non c'e controprova.
Resta il fatto che, al "Secolo d'Italia", abbiamo potuto partecipare
alla formazione di una classe dirigente. E abbiamo goduto di un osservatorio
privilegiato per capire come fosse cambiata e stesse ancora cambiando
la destra italiana. Certo era un osservatorio accerchiato, come accerchiata
era la destra. Accerchiata dagli esiti dell'antifascismo militante, dal
piombo di quegli anni, dal clima della solidarieta' nazionale che solo
dopo, con Bettino Craxi, si sarebbe spezzato. Eppure era un accerchiamento
che non corrispondeva, se non in misura marginalissima, al sentimento,
alle speranze, ai progetti, alla cultura di quel mondo.
Non era la sindrome da testimone impotente a guidare i dirigenti della
destra, da Almirante a Romualdi, da Tripodi a Servello, per non dire dell'indipendente
direttore Alberto Giovannini. Non era questo il sentimento che guidava
i giovani che classe dirigente - dell'Italia - sarebbero diventati. "Siamo
nati in un cupo tramonto
" restava solo il primo verso di un
inno ignoto ai piu', che sembrava essere stato scritto un paio di secoli
prima.
Colpita dal terrorismo, dall'inattuale scissione di Democrazia nazionale,
dalla residua retorica antifascista, la destra avrebbe avuto qualche ragione
per chiudersi in se stessa, per ritagliarsi un ruolo puramente testimoniale.
Invece aveva l'ansia - per dirla con un intellettuale troppo presto dimenticato,
Luciano Lucci Chiarissi - di partecipare politicamente e culturalmente
alla vita nazionale.
Una destra che aveva interiorizzato la contrastata lezione di Michelini
e, con Almirante, l'aveva portata a compimento in condizioni ambientali
oggettivamente difficili. Prima il Fronte articolato anticomunista, poi
la Destra nazionale, e ancora la Costituente di destra. Le contrapposizioni
della guerra civile erano state archiviate. De Lorenzo e Giacchero avevano
combattuto dall'altra parte. Gualtiero Jacopetti - il regista di "Mondo
cane" e "Africa addio" - era stato ufficiale di collegamento
con gli Alleati. In questo senso si puo' dire che negli anni Settanta
erano state poste basi concrete per il Partito degli italiani, basi che
nel decennio successivo si sono consolidate anche grazie a via Milano,
ai suoi ragazzi e a tutto quel discorrere di politica e di cultura che
passava da li'.
Almeno questa e' la sensazione di un testimone, rafforzata dalla memoria
di Mauro Mazza. Che mi conferma nella convinzione di aver partecipato
a una bella stagione, non solo professionale. Sotto questo profilo, tra
l'altro, vissuta all'insegna di una grande liberta'. Un aneddoto in piu',
tra i tanti possibili. Ottobre 1987, Bolzano. Almirante, per la seconda
volta, fa chiaramente intendere che sara' Gianfranco Fini il suo successore
alla segreteria. I "colonnelli" di allora sono in fibrillazione.
E' domenica, il "Secolo" non esce il lunedi'. Almirante e' direttore
ed editore. Mi avvicino e gli dico: "Segretario, io scrivo il pezzo.
Magari domattina glielo mando
" Annuisce, saluto. Mi richiama:
"Scusa, Rossi: lascia perdere. Mi fido".
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