Dagli angusti locali di via Milano 70, a Roma, tra il Viminale e la vecchia
suburra del rione Monti, e' nata una generazione di giornalisti e di uomini.
«E' una storia che non ha buchi neri, ne' tratti ambigui. Non e'
un amarcord, ma una narrazione su un giornale, il Secolo d'Italia, che
e' stata una scuola di vita e di mestiere», racconta Mauro Mazza,
direttore del Tg2, presentando il proprio libro I ragazzi di via Milano
(Fergen, Roma, pp.144, 10,00 euro; info@fergen.it). Una foto, ormai storica,
del 23 settembre 1982, li ritrae in un campo di calcio. Era la "squadra"
dei giornalisti del "Secolo", il quotidiano del MSI-DN. Il "tecnico"
era il condirettore Franz Maria D'Asaro, gli "undici" Mauro
Mazza stesso, Maurizio Gasparri, Francesco Storace, Bruno Socillo, Claudio
Pompei, Luca Montebelli e Gianni Scipione Rossi. Accosciati, Pino Rigido,
Silvano Moffa, Gennaro Malgieri, Roberto lacopini, Gianfranco Fini e Stefano
Mattei.
Di quella squadra, Mazza era il portiere. «Molte volte - spiega
- nel corso degli anni, la foto di quel gruppo di ragazzi e' stata tirata
in ballo, senza che fosse conosciuta la storia di quelle persone che lavoravano
insieme in via Milano 70. Perche' il "Secolo" - rimarca il direttore
del Tg2 - non era solo un giornale, ma una comunita'. Qualunque mestiere
abbiano poi fatto i ''ragazzi di via Milano'', questo libro serve anche
a loro, a ritrovare qualche stimolo. Se l'abbiamo perduto». Da poco
nelle librerie, il testo ha gia' riscosso un ampio consenso e «molti
aneddoti stanno arricchendo questa narrazione. II lavoro - spiega ancora
l'autore - cresce man mano che il testo viene conosciuto e si fanno presentazioni.
Non escludo una seconda edizione aggiornata del contributo».
Tra i secchi salvapioggia e l'immancabile pacchetto di sigarette che al
pari delle macchine per scrivere non aveva pace, quei ragazzi che sarebbero
poi diventati leader politici o giornalisti affermati, lottavano ogni
giorno per far bene il proprio lavoro di redattori. «Nati in un
cupo tramonto», come scandiva l'inno ufficiale del Movimento Sociale
Italiano, scritto da Giorgio Almirante, erano evoliani, nietzscheani o
cattolici. Compassati come Adolfo Urso e Stefano Mattei, o "sbragati"
alla Teodoro Buontempo, che il pomeriggio dormiva sulle scrivanie della
redazione e d'estate stendeva la camicia in terrazzo, ad asciugare. «Un
paio di volte - ricorda l'autore - resto' in mutande, calzini e scarpe.
Ma seduto alla scrivania era perfettamente a suo agio. Un fenomeno».
«Eppure - nota Mazza, al "Secolo" dal 1977 al 1987 - attorno
a noi c'era tanto silenzio. Cercavamo di sfondare nella politica come
nel giornalismo, con impegno e passione. Eravamo discriminati senza averne
colpa. Questo faceva rabbia ma cementava molto». Il "Secolo"
era «una casa ai margini del bosco», ma «avevamo scelto
di lavorare li', e di sentirci a casa», osserva il direttore del
Tg2. Che aggiunge:«A me piacerebbe molto che altri colleghi, magari
quelli che hanno lavorato all'"Unita'" o a "Paese Sera",
raccontassero le loro storie. Perche' di tanti tasselli e' fatta la vicenda
italiana di quei difficili anni». «Questo - scrive Gennaro
Malgieri nella bella prefazione al volume - e' dunque un libro di sentimenti
e di ricordi che s'intrecciano fino a formar la trama della vita di una
generazione». Una generazione, scrive l'attuale consigliere Rai,
che «non ha fatto in tempo a perdere la guerra e forse non ha neppure
vinto la pace. Non avevamo niente da perdere. Era gia' tanto che percepivamo
un salario (modesto, ma puntuale) per fare una cosa che ci piaceva. Non
ci chiedevamo quanto sarebbe durato».
Sotto l'agile penna di Mazza scorrono figure simili ma anche diverse:
da Fini a Urso, da Storace a Gasparri, emergevano anche allora caratteri
forti, che la storia dei decenni successivi hanno confermato nelle loro
caratteristiche. Ma c'erano anche tanti altri personaggi di cui e' sempre
fatta la storia di un giornale. Per esempio il fattorino-factotum, "Peppe
er matto", semplice e immenso, che "aveva un segreto":
ogni domenica andava in provincia, con il pullman, a trovare i suoi ragazzi
all'orfanotrofio e regalava loro dolci. Al "Secolo", invece,
«calava gli articoli col secchio lungo la tromba delle scale. Poi
telefonava in tipografia e un impiegato li raccoglieva per darli alle
stampe». Ma c'erano anche, tra gli altri, i fondi politici di Cesare
Mantovani e i racconti di Franz Maria D'Asaro. E ancora l'impegno di Adalberto
Baldoni e di altri giornalisti, fino agli allora giovanissimi Claudio
Pompei e Aldo Di Lello. I "pezzi" di Almirante per il giornale,
ricorda poi Mazza, erano invece scritti con la portatile Adler. Il segretario,
che aveva sempre in tasca un cornetto e altri piccoli amuleti, «si
divertiva a riempire i fogli a spazio uno, sicche' non c'era possibilita'
di correzione o di ripensamenti tra una riga e l'altra. Lui non ne aveva
bisogno».
Che dire inoltre di Mario Pucci e dei suoi corsivi. «A lui - nota
Mazza - non si poteva non voler bene. Un gigante buono, eccellente giornalista,
gentile soprattutto coi colleghi piu' giovani». Mentre l'attuale
presidenta del partito di via della Scrofa viene descritto come «un
eccellente uomo-macchina: il suo dovere quotidiano era la lettura e la
selezione delle notizie d'agenzia. Nonostante gli impegni politici come
segretario del "Fronte della Gioventu", Fini copriva regolarmente
i turni redazionali. Era nella stanza di Gesare Mantovani, con Pino Rigido
e me. Poche telefonate, qualche caffe', molte battute e commenti salaci
sui fatti del giorno. Se c'era da fare uno scherzo, era tra i primi».
Insomma, sottolinea l'autore, in «quella terra di mezzo tra il nichilismo
di Nietzsche e il filone esoterico-massonico di Guenon», via Milano
divenne «un fortino da cui scrutare il mondo». E «come
in tutte le comunita' di lavoro che possiedono un valore aggiunto, simbolico
o reale, una permanenza a lungo o anche solo un passaggio, lasciano un
segno nella biografia e nell'anima. Quasi mai una cicatrice. Un ricordo
indelebile, piuttosto». Perche' essere "ragazzi di via Milano"
in quegli anni di piombo, ha impresso in ciascuno un senso di appartenenza.
"Un giorno - racconta l'autore - Sandro Pertini mi fece i complimenti
per il corsivo sul "pupazzo Sandrino" che avevo pubblicato in
prima pagina. Il Colle aveva scorto in quelle righe vergate di ironia
anche un senso di rispetto. Non era un articolo benevolo, ma lui volle
telefonarmi di persona al giornale. Io ero un semplice redattore, lui
il presidente della Repubblica».
«Eppure, nonostante tutto, erano anni bellissimi perche' coincisero
con la nostra gioventu'.
Se a Fini - conclude il direttore del Tg2 - avessi profetizzato che un
giorno sarebbe diventato il leader della Destra di governo, avrebbe
chiamato la neuro. Soltanto Urso avrebbe detto che le cose sarebbero andate
esattamente cosi'. Ma doveva essere una giornata di sole».
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