SECOLO d'ITALIA, 28 luglio 2006, prima pagina

Arriva la storia dei "ragazzi di via Milano":
nessun amarcord, lì iniziò la destra di oggi

Aldo di Lello


Quando, verso la metà degli anni Novanta, una nuova generazione di dirigenti della destra fece la sua comparsa sulla scena, furono in molti, al di fuori del nostro ambiente, a chiedersi: ma questi giovanotti, cosi' diversi dal vecchio stereotipo neofascista, da dove vengono, dove si sono formati, a parte naturalmente le sezioni e le piazze?
Molti di loro venivano da un vecchio palazzo di proprietà del Comune di Roma sito in un viale alberato al centro della Capitale: via Milano, che per quasi quarant'anni ebbe una particolarità, quella di essere la strada in cui sorgeva la sede del Secolo d'Italia. In quel palazzo non pulsava soltanto la vita di una redazione. C'era qualcosa di piu'. Era un mondo a parte nel quale si svolse una piccola-grande epopea italiana.
Mauro Mazza, direttore del Tg2, l'atmosfera di quel luogo incredibile l'ha respirata per dieci anni, dal 1977 al 1987. Quell'epopea la racconta oggi in un libro freschissimo di stampa, densissimo e agile I Ragazzi di via Milano (Fergen, pp.
142 euro 10- prefazione di Gennaro Malgieri). E' una sorta di autobiografia collettiva.
E' la "trama di un racconto corale". È un tornare al passato e scoprirlo luogo dell'anima. Mazza fa salire insuperficie qualcosa che c'e' anche se non c'e' piu'. C'e', anzi Ce', come tutti (tutti quelli almeno che avevano il privilegio di dargli del tu) chiamavano Cesare Mantovani, che fu caporedattore, poi vicedirettore e quindi direttore del Secolo d'Italia in anni intensi e furiosi. Mantovani e' morto il mese scorso. E ai suoi funerali si sono ritrovati molti dei suoi ragazzi, imbiancati dal tempo, ma con un che di struggente e, nello stesso tempo, di fiero negli occhi. Tra questi c'era anche Pino Rigido, uno dei pochi di quella generazione
(insieme con il direttore Flavia Perina e con il sottoscritto) rimasti alla scrivania da combattimento sotto la gloriosa insegna.
Nel necrologio personale. Rigido ha salutato il vecchio direttore con un secco e commovente Ciao Ce'l. E Ciao Ce' e' diventato il titolo della nota finale del libro. Il caso ha voluto che Mantovani morisse nei giorni dell'inchiesta giudiziaria di Potenza e del tracimare sui giornali delle intercettazioni telefoniche. Il libro era gia' pronto, ma l'autore ha voluto aggiungere una postilla. "Ancora una volta - scrive Mazza - all'esplodere dello scandalo sono stati tirati in ballo i ragazzi di via Milano, con tanto di foto della squadra di calcio pubblicata da la Repubblica nel classico pezzo di colore, impaginato di taglio basso. Ma quei ragazzi, e quei tempi, non c'entravano un bei niente. Perche' allora - inesperti e squattrinati, giovani e incoscienti - si stava insieme soprattutto perche' ci si sentiva parte di una storia piu' grande".
Gia', il sentirsi parte di una stona piu' grande, che non e' la semplice condivisione di un ideale politico, ma qualcosa di piu'. E' il senso di un destino comune. E' l'appartenere a una comunita' umana in trincea permanente. Di questa comunita', la redazione di via Milano era l'avamposto presso la pubblica opinione. "Il Secolo - diceva Almirante - e' un piccolo fucile. Ma un piccolo fucile puntato tutti i giorni".
Certo, le opinioni cambiano, le idee si evolvono, i tempi maturano, gli orizzonti si allargano, ci apriamo al mondo e il mondo si apre a noi. Pero' quel senso della stono piu' grande e' una sostanza intangibile che non muta col mutare del tempo. E' un viatico che i ragazzi di via Milano avranno sicuramente portato con se' nel loro cammino. Ed e' forse li' la trama di quel racconto corale che anima questo libro forte e, nello stesso tempo, struggente.
E' un sentimento che si rintraccia anche nella prefazione di Malgieri. "... Il Secolo d'Italia e' stato per noi un rifugio e una famiglia; una comunita' e un laboratorio d'idee; una trincea e un avamposto del quale eravamo orgogliosi; un punto d'incontro per chi non aveva ne parrocchie ne Frattocchie".
Ognuno, naturalmente, interpretava a modo suo il senso della storia. La redazione di via Milano era un microcosmo variopinto. A partire dal personale. Un tipo davvero sui generis era Giuseppe De Rosa, che tutti chiamavano "Peppe er matto". Era una sorta di genius loci. Mazza gli dedica un ricordo commosso. "Arrivava presto al giornale. Doveva accendere le telescriventi e preparare le mazzette dei quotidiani. Appena finito, la sua occupazione preferita era starsene, zitto, zitto, nella stanza del redattore capo, anche lui mattiniero". Peppe era stato alla Rsi ed era poi passato per l'attivismo duro del dopoguerra. Aveva un cuore grande come una casa. Pochi sapevano che devolveva quasi tutto il suo stipendio in favore di un orfanotrofio. Il mondo di via Milano era cosi': fede politica d'acciaio e umanita' debordante. Un altro personaggio singolare era il telefonista. Franco Troiani. "I suoi racconti di guerra (forse) vissuta erano ricchi di colpi di scena e di particolari avvincenti quanto inverosimili. La sua militanza politica era incrollabile, di vero e proprio Ca. di si. fe'. (camerata di sicura fede)". A cementare lo spirito di corpo provvedevano anche i disagi ambientali, che redattori e personale condividevano per molte ore al giorno. Tre piani senza ascensore. "Soffitti bassi, pareti di' cartongesso, una lacera e sporca moquette grigio scuro, molto scuro.
Stanze caldissime d'estate. Fredde d'inverno". I condizionatori d'aria, rumorosi e inutili, erano necessariamente spenti. "Nello stanzone della cronaca lavorava il grosso della redazione. Ogni volta che si apriva la porta d'ingresso, il rumore delle telescriventi copriva le voci dei giornalisti. Il fracasso era assordante". Ogni venti minuti arrivava il fattorino con lunghe strisciate di carta. Le consegnava al caporedattore o a un giovane redattore: Gianfranco Fini. "Era il suo compito di leggerle e distribuirle con note a margine sulle piu' importanti, perche' quelle notizie fossero riprese nei servizi in lavorazione". Sotto i locali della redazione, si scendevano due rampe di scale e si arrivava alla tipografia. "Il pezzo forte era la rotativa. Aveva un motore elettrico ausiliare appartenuto a una nave. Quando cominciava a girare, il rumore era assordante". Quel luogo fu preso di mira dai terroristi nel 1980. "Chi aveva orchestrato l'impresa voleva compiere una strage. Le bombe erano due. La prima, collocata nei pressi della rotativa [...], esplose e feri' sei operai. La seconda non scoppio' perche' la miccia si spense". Il Secolo diserto' soltanto un giorno. "Stampammo in un'altra tipografia e 36 ore dopo l'attentato riuscimmo a tornare in edicola". Si stava, al Secolo, in quegli anni, come in un fortilizio. Ma attorno stava per cambiare l'aria, ancorche' nessuno pareva accorgersene. Proprio al Secolo, gia' negli anni Ottanta, arrivarono piccoli segni di disgelo. Piu' umano che politico, ma pur sempre significativo. Uno di questi segni venne nientemeno che da Sandro Pertini, il presidente partigiano. "La prima volta che il centralino del Colle chiamo' perche' il presidente voleva parlare con qualcuno del Secolo d'Italia, Mantovani penso' a uno scherzo [... ]. Invece era proprio Pertini, che voleva commentare un editoriale di Mantovani molto critico con lui. Lo fece con garbo, come si fa con chi si rispetta. E lo fece piu' volte". Proprio in quegli anni, i "ragazzi di via Milano", preparavano, senza saperlo e neanche sospettarlo, il loro gioioso assalto all'Italia, che nel giro di una quindicina d'anni li avrebbe catapultati ai vertici della politica e del giornalismo nazionali. Chi l'avrebbe mai immaginato? A via Milano comincio' la sua camera giornalistica un giovanissimo Storace. "Fisico massiccio, ruspante, simpaticissimo, barba incolta e occhiali spessi. Ci si mise d'impegno, umile, rispettoso". '' Un altro giovane redattore che avrebbe in futuro fatto parlare di se' era Maurizio Gasparri, il quale "trascorreva molte ore in redazione". Lavorava alla pagina dell'economia. "E parlava, quasi sempre al telefono. Telefonava, praticamente, a tutti i dirigenti missini d'Italia... Parlava e parlava, velocissimo, senza pause". Gasparri scrisse un libro insieme con Adolfo Urso, anch'egli redattore del Secolo. S'intitolava L'eta' dell'intelligenza e parlava delle nuove tecnologie informatiche. "Tanto ciarliere Gasparri, quanto taciturno Urso. Piu' lunatico che timido. Capace d'immaginare per se' e per tutti noi un futuro radioso [... ]. In caso di luna storta, Urso diventava triste e depresso: tutto buio, presente e futuro, nessuna speranza per la destra e forse per l'umanita intera...". Mazza dedica pennellate sapienti ad altri ragazzi di via Milano che si sono fatti onore nella politica e nella professione: da Gennaro Malgieri a Silvano Moffa, a Teodoro Buontempo, Bruno Sodilo, Gianni Scipione Rossi, Claudio Pompei, Silvia Mastrantonio. E poi ancora l'ever green Adalberto Baldoni, il colto Carlo Cozzi, il grande e indimenticabile Franz Maria D'Asaro con la generazione dei maestri (Nino Tripodi, Alberto Giovannini, Cesco Giulio Bagnino), la presenza discreta di Almirante: "Gli articoli scritti con la portatile Adier erano proprio come i suoi discorsi: sintatticamente perfetti, senza un'incertezza, nemmeno un errore di battuta". Ci sarebbe molto altro da dire per descrivere la miniera di memorie nitide, solari, goliardiche e ironiche contenuta in queste centoquarantadue pagine. Ma lasciamo volentieri ai lettori il piacere della (ri) scoperta. Il cinico e il disincantato diranno che ogni evento o personaggio acquistano sempre, nel ricordo, un alone quasi mitico.
E' vero. Ma nella trama del racconto corale dei Ragazzi di via Milano non ci sono solo vicende individuali. C'e' la storia di una generazione in cammino, al varco tra due millenni, testimone e protagonista di grandi cambiamenti. E si', sempre la storia. Era l'ossessione di quel gruppo di ragazzi negli anni della loro formazione professionale e politica. Non fa male, oggi, ricordare lo spirito di quegli anni.